MFormazione "il FIGLIO dell'UOMO" ARGOMENTO dalla STAMPA QUOTIDIANA
Buon Natale e Felice Anno Nuovo,
MERRY CHRISTMAS AND HAPPY NEW YEAR, FROHE WEIHNACHTEN UND HAPPY NEW YEAR, Gëzuar Krishtlindjet dhe Gëzuar Vitin e Ri, عيد ميلاد مجيد وسنة جديدة سعيدة , З Калядамі і HAPPY NEW YEAR, ВЕСЕЛА КОЛЕДА И ЩАСТЛИВА НОВА ГОДИНА, ЎBON NADAL I FELIÇ ANY NOU, VESELÉ VÁNOCE A ŠŤASTNÝ NOVÝ ROK, Sretan Božić i Sretna Nova Godina, GLĆDELIG JUL OG GODT NYTÅR, Happy New Year חג מולד שמח ו, Häid jõule ja head uut aastat, HYVÄÄ JOULUA JA ONNELLISTA UUTTA VUOTTA, FELIZ NATAL E FELIZ ANO NOVO, Nadolig Llawen a Blwyddyn Newydd Dda, ΚΑΛΑ ΧΡΙΣΤΟΥΓΕΝΝΑ ΚΑΙ ΚΑΛΗ ΧΡΟΝΙΑ, Merry Christmas AGUS Athbhliain BHLIAIN, Gleπileg jól og Gleðilegt nýtt ÁR, Priecīgus Ziemassvētkus un laimīgu Jauno gadu, Kalėdų ir Naujųjų metų, Merry Божиќ и Среќна Нова Година, FELICE ANNO NUOVO ناتاله پست, BUON NATALE E FELICA ANNO NUOVO, Crăciun fericit şi HAPPY NEW YEAR, С Рождеством и HAPPY NEW YEAR, Срећан Божић и срећна Нова Година, VESELЙ VIANOCE A ŠŤASTNÝ NOVÝ ROK, Vesel božič in srečno novo leto, ˇFELIZ NAVIDAD Y FELIZ AÑO NUEVO, GOD JUL OCH GOTT NYTT ÅR, З Різдвом і HAPPY NEW YEAR, Boldog Karбcsonyt és Boldog Új Évet, לעבעדיק ניטל און גליקלעך נייַ יאָר
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Rassegna Stampa - L'Argomento di Oggi 2010-01-07NOI E L’ISLAM Il pluralismo valorizza la diversità No al multiculturalismo ideologico A quanto pare il tema della cittadinanza agli islamici è sentito. Il Corriere ha selezionato ieri 11 lettere, ricavate da un totale di quasi 450 accolte su 23 pagine di Internet. Ne ignoro la distribuzione. Ma un mio amico ha calcolato che più della metà di queste lettere sono a mio favore, e che le altre sono per lo più |
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DG Studio TecnicoDalessandro Giacomo 40° Anniversario - SUPPORTO ENGINEERING-ONLINE |
Internet, l'informatore, ll Giornalista, la stampa, la TV, la Radio, devono innanzi tutto informare correttamente sul Pensiero dell'Intervistato, Avvenimento, Fatto, pena la decadenza dal Diritto e Libertà di Testimoniare.. Poi si deve esprimere separatamente e distintamente il proprio personale giudizio..
Il Mio Pensiero:
AVVENIRE per l'articolo completo vai al sito internet http://www.avvenire.it2010-01-07 7 Gennaio 2010 Noi e i nostri nuovi vicini di casa Per un’identità "arricchita" L’immigrazione è una delle sfide più brucianti con cui si misura l’Europa, sempre più attanagliata dalle paure e sempre meno in grado di elaborare modelli capaci di costruire e organizzare convivenza. C’è chi dice che sia essenzialmente un problema di numeri: l’arrivo di una quota eccessiva di stranieri, unita alla loro maggiore prolificità rispetto agli standard occidentali, renderebbe ingovernabile la situazione. C’è chi denuncia un problema di compatibilità culturale di alcune componenti sostenendo ad esempio, come ha fatto recentemente il politologo Giovanni Sartori, che le comunità musulmane sarebbero per definizione ' non integrabili'. Sta di fatto che i modelli elaborati nei diversi Paesi per gestire la convivenza con i ' nuovi arrivati' – che col passare del tempo sono sempre meno ' nuovi' e sempre più stanziali – mostrano la corda. Lo dimostrano le difficoltà crescenti con cui si misurano la Gran Bretagna e l’Olanda, dove è in crisi il multiculturalismo fondato sull’illusione di far convivere comunità etniche o religiose sulla base delle rispettive regole e usanze, a scapito di valori condivisi. Coltivando l’utopia che ' diverso è bello', si è consentita la nascita di pezzi di società parallele e autoreferenziali ( come testimonia il reportage che pubblichiamo a pagina 3) caratterizzati da legami forti al loro interno ma fragili con ciò che sta fuori dalla comunità di appartenenza. Il multiculturalismo, al fondo, è figlio del relativismo culturale e giuridico, cioè del tentativo di dare legittimazione a ogni diversità che caratterizza le minoranze. Anche la Francia fa i conti con i limiti del suo modello di integrazione, ispirato all’universalismo e alla laïcité : da un lato le promesse di liberté- égalité- fraternité, figlie degli ideali repubblicani, si sono infrante contro una dura realtà fatta di insuccessi scolastici, disoccupazione ed emarginazione che ha colpito le seconde e terze generazioni degli immigrati; dall’altro la tendenza a relegare nell’ambito privato l’esperienza religiosa ( il contrario, cioè, di quella ' laicità positiva' che Sarkozy sta faticosamente cercando di promuovere) si è scontrata con l’onda lunga del fondamentalismo islamico. E in Italia, che fare? Quale strada intraprendere, facendo tesoro per quanto possibile della crisi dei modelli adottati negli altri Paesi europei? Siamo in una situazione molto peculiare: quasi 5 milioni di stranieri provenienti da più di 150 Paesi, raddoppiati negli ultimi 5 anni e con ingressi prossimi al mezzo milione all’anno nell’ultimo triennio, di tradizione cristiana per il 60%, musulmani per il 35%, molto più giovani della media italiana, 700mila sono compagni di banco dei nostri figli. Questo universo umano molto differenziato – che molti continuano a descrivere e a concepire invece come una massa indistinta e uniforme – vive in un Paese caratterizzato da una storia millenaria, spesso maltrattata dai suoi stessi eredi, che non è in alcun modo paragonabile a un libro con le pagine bianche dove tutto può essere azzerato in nome del rispetto di sopravvenute diversità. La nostra è terra ricca di tradizioni, legami, modi di concepire il lavoro, la famiglia, la convivenza. Tutto questo l’ha segnata in profondità. Tutto questo è l’Italia. Ed è questa l’Italia – lo ricordiamo mentre è ancora fresca l’eco della ' festa dei popoli' celebrata ieri in molte diocesi – che deve conoscere chi vuole metterci radici: imparandone la lingua, rispettandone le leggi, condividendo ciò che ne sta a fondamento, in un percorso che non è frutto di una formula ma comporta la fatica dell’integrazione. C’è un’identità italiana che nei secoli – non senza difficoltà – si è dimostrata capace di incontrare e accogliere la diversità, esigendo rispetto per il proprio patrimonio culturale e giuridico e manifestandone per quanti incontrava. Ogni vera identità non è mai autoreferenziale, ma consapevole che un ' io' autentico si costruisce solo nel rapporto con un ' tu', per poter arrivare a dire ' noi' in maniera non equivoca. E costruire così quella ' identità arricchita' che può rappresentare il modello italiano di convivenza, al quale tutti sono chiamati a portare il loro contributo, nella misura delle responsabilità di ciascuno: istituzioni, società civile, comunità straniere, singoli cittadini. Per fare in modo che la diffidenza e l’estraneità non diventino le lenti deformanti con cui guardiamo coloro che in molti casi sono diventati i nostri nuovi vicini di casa. Giorgio Paolucci
7 Gennaio 2010 CRISTIANI NEL MIRINO Egitto, sei cristiani uccisi nella notte del Natale copto Sei cristiani e un poliziotto musulmano sono stati uccisi da un uomo armato che ha aperto il fuoco contro un gruppo di fedeli che partecipavano alle celebrazioni del Natale copto, in una località nel sud dell'Egitto. Teatro del sanguinoso episodio di violenza Nagaa Hammadi, nella provincia di Qana, 600 chilometri a sud del Cairo: l'aggressore ha aperto il fuoco dall'interno di un'autovettura in cui viaggiavano anche due altre persone, tutte fuggite dopo l'aggressione. Secondo il comunicato del ministero dell'Interno, diffuso dall'agenzia di notizie ufficiale egiziana, Mena, la sparatoria è avvenuta alle 23:30 ora locale, quando un gruppo di fedeli usciva dalla chiesta di Anba Basaya, dopo aver partecipato alla Messa che segna l'inizio della Natività copta, il 7 gennaio. Fonti locali hanno riferito che, dopo l'accaduto, nella cittadina è stato imposto il coprifuoco e sono state schierate numerose forze di polizia. Secondo la nota ministeriale, l'incidente è collegato al presunto rapimento e stupro di una bambina musulmana della zona, che voci incontrollate hanno attribuito a un giovane cristiano. L'episodio è il più sanguinoso scontro intra-confessionale registrato nel Paese dagli anni '90, quando in Egitto agivano numerosi gruppi estremisti islamici che tennero in scacco per un lustro le forze dell'ordine. I copti rappresentano meno del dieci per cento della popolazione del Paese e rappresentano la comunità cristiana più popolosa del Medio Oriente.
7 Gennaio 2010 REPORTAGE Ghetti nell’Olanda multiculturale Ecco dove è fallita l’integrazione
Le nove di una sera nelle feste di Natale. Il centro di Amsterdam sotto la neve è ricolmo di luci. Prendi il metrò e scendi alla stazione Lelylaan, alla periferia sud- ovest della città. Ecco Slotervaart, quasi un’isola musulmana: la grande maggioranza dei residenti sono immigrati arabi (per lo più marocchini) e turchi. È un quartiere popolare che negli ultimi decenni ha visto l’esodo degli olandesi parallelamente all’insediamento massiccio degli stranieri. Non ci sono bar ma solo botteghe di kebab; nei supermercati molte cassiere portano il velo. Gli stabili sono tutti uguali, dignitosi, con grandi finestre da cui scorgi stanze ampie. Meglio di molte nostre periferie, quanto a decenza e manutenzione: tuttavia, quando ti inoltri in queste strade è evidente che sei in un ghetto. Una città nella città, in cui è tanto raro incrociare un olandese che, se ne vedi uno, ti volti a guardarlo. Nella sera fredda pochi passanti nelle strade debolmente illuminate. Al metrò Lelylaan attorno alle scale mobili ci sono delle barriere di metallo: sono state messe dopo una serie di rapine ai danni dei viaggiatori, ad opera delle bande giovanili del quartiere. L’area di Lelylaan è stata teatro di pesanti scontri fra la polizia e i giovani immigrati, in questi anni. Al momento la situazione sembra più calma, ma fra pochi mesi ci sono le elezioni: e il partito di Gert Wilders, a giudizio di molti xenofobo, si delinea come secondo per consensi. La notte di Slotervaart si presenta buia e silenziosa al passante. Le sfavillanti luci di Natale del centro qui sono scomparse. Solo, qua e là, sui balconi, qualche cometa, un albero di Natale. "Li mettono per fare contenti i bambini, non certo per altri significati", spiega Noureddine Amrani, giornalista e corrispondente del marocchino Alwatan Alaan Magazine, che ci accompagna in un quartiere in cui altrimenti non si andrebbe volentieri, di notte, da soli. La piazza è uno slargo spoglio, due negozi con le insegne in arabo, la caserma della polizia e accanto la moschea – una delle venti moschee di Amsterdam. Stanno per partire i lavori per costruire qui la più grande moschea della città, finanziata con 3 milioni di euro dall’emiro del Qatar. L’unica cosa olandese che resta sono i nomi delle strade. Mondriaan-strat, leggi su una targa all’inizio di una via deserta. Qui, in una casa a due piani uguale a tutte le altre, abitava l’assassino del regista Theo Van Gogh. Poco oltre un campo da pallone, una chiesa protestante.
Una insegna, " Sop " . È un centro sociale. Amrani bussa, ci aprono. In una stanza una dozzina di immigrati studiano l’olandese. ( Dopo la lunga stagione del ' multiculturalismo', nelle offerte di lavoro ora si comincia a chiedere un minimo di conoscenza della lingua nazionale). Il presidente del centro, Mohamed Mellouch, marocchino a Amsterdam da anni, pacatamente racconta di com’è questo Paese, visto da Slotervaart. " Gli olandesi mi sembrano un popolo che ha paura di tutto: ha paura di noi, ma anche della destra xenofoba che sale nei consensi. Abbiamo imparato a fidarci, più che dello Stato, della solidarietà delle Chiese protestanti e cattoliche, che accolgono i nostri figli e soccorrono come possono i bisogni dei poveri. Gli olandesi, per noi a Slotervaart, sono solo i passeggeri delle belle auto nuove che passano di qui il venerdì sera, correndo verso l’autostrada per il week end " . ( È singolare come questo giudizio sulla ' paura' degli olandesi sia simile a quello dei cattolici più lucidi). Paura, è un’espressione usata anche dal professor Gianfranco Renda, vicedirettore dell’Istituto di cultura italiano a Amsterdam: " Gli olandesi sono fondamentalmente un popolo tollerante, e gli omicidi Van Gogh e Fortuyn li hanno sconvolti. Ma anche le aggressioni ad omosessuali, che si sono ripetute ad opera di giovani immigrati arabi, destano un forte allarme. Il timore è che questi stranieri non accettino la regola del gio- co fondamentale in Olanda, il rispetto della libertà altrui". E camminare per Slotervaart impressiona, perché non diresti di essere in Olanda. Segregati gli immigrati, gli olandesi qui sono a loro volta stranieri. Nel locale in cui mangiamo tutti i clienti sono marocchini, a eccezione di due ragazze bionde che sembrano venute qui apposta per sfidare l’enclave delle donne velate. Ma le nuove generazioni, ti chiedi, i nati qui, si sentono olandesi o arabe? Herman Kroes, un olandese cattolico, talent scout calcistico che gira i campetti del Paese affollati di bambini marocchini – almeno il tifo per l’Aiax sembra un elemento unificante – fa spesso questa domanda ai ragazzi che ' coltiva': "Mi rispondono: io, prima di tutto, sono marocchino" . I segni di questa integrazione difficile si vedono nelle periferie, dove ciascuna etnia tende a formare la sua tribù. Ma in centro le bande di ragazzi vestono all’occidentale, e mangiano da McDonald’s. Malgrado il fantasma del fondamentalismo sia forte, secondo le statistiche non più della metà dei musulmani sarebbe regolarmente osservante: la secolarizzazione lavora anche fra di loro. Talvolta vedi un ragazzo arabo accanto a una adolescente bionda: i flirt con le olandesi non sono rari. Ma, quando si tratta di sposarsi, quasi sempre ci si sposa fra connazionali. Addirittura si va a cercare una sposa nel Paese di origine; e all’aeroporto di Schiphol, agli arrivi, accade di vedere giovani immigrati nati o cresciuti in Olanda che attendono la promessa sposa, appositamente scelta in Marocco o in Turchia. Perfino dopo una vita a Amsterdam o Rotterdam, l’appartenenza profonda resta straniera. " I nostri immigrati – dice Noureddine Amrani – vengono qui, lavorano, hanno figli, ma da morti spesso vogliono tornare a casa. Molti stipulano un’assicurazione apposta per pagare il ritorno in patria della bara" . E tuttavia, nella vita quotidiana delle città vedi anche il tentativo di questa gente di inserirsi nella vita olandese. Sono le migliaia di netturbini, camerieri, autisti di bus che fanno marciare ogni mattina Amsterdam e ancora di più Rotterdam, forse la città con più forte presenza islamica in Europa. Rasa al suolo dalle bombe durante la guerra, Rotterdam si presenta oggi, almeno in centro, tutta nuova, grattacieli altissimi di vetro e cemento. Nei negozi, nei locali, tutti gli inservienti sono arabi; alcune donne velate ma non moltissime, di chador nemmeno uno. Sul treno per Amsterdam due mamme arabe cullano i loro bambini mentre i vagoni sfilano accanto alle moschee dei quartieri periferici. È Olanda, è Occidente, ma con i segni di una marcata metamorfosi. Negli intenti di una buona parte di quelli che arrivano, pacifica. Ma che fatica e che asprezza, nel contatto fra i due mondi. Nel cielo a Sud di Amsterdam un aereo decolla da Schiphol e si allontana. Chissà se nella stiva riporta a casa, a riposare per sempre, uno dei tanti che erano venuti qua per mangiare e per vivere. Dal nostro inviato ad Amsterdam Marina Corradi
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CORRIERE della SERA
per l'articolo completo vai al sito Internet http://www.corriere.it2010-01-08 Le fermezza e l'ipocrisia Sappiamo da tempo che l'immigrazione è il fenomeno che forse più inciderà sul futuro dell'Europa. Conteranno sia la quantità dei flussi migratori che la qualità delle risposte europee. In Italia sembriamo tuttora impreparati ad affrontare in modo razionale e convergente un fenomeno col quale conviviamo ormai da anni. Ci sono almeno tre temi su cui non c'è consenso nazionale e, per conseguenza, mancano codici di comportamento e pratiche comuni fra gli operatori delle principali istituzioni. Non c'è consenso, prima di tutto, su che cosa si debba intendere per "integrazione" degli immigrati. A parole, tutti la auspicano ma che cosa sia resta un mistero. Ad esempio, si può ridurla alla questione dei tempi per la concessione della cittadinanza? O ciò non significa partire dalla coda anziché dalla testa? Poiché nulla meglio delle micro-situazioni getta luce sui macro-fenomeni, si guardi a che cosa davvero intendono per "integrazione" certi operatori istituzionali. Ciò che succede, ormai da diversi anni, in molte scuole, durante le feste natalizie (e le inevitabili polemiche si infrangono contro muri di gomma) è rivelatore. Ci sono educatori (è inappropriato definirli diseducatori?) che hanno scelto di abolire il presepe e gli altri simboli natalizi, lanciando così agli immigrati non cristiani (ma anche ai piccoli italiani) il seguente messaggio: noi siamo un popolo senza tradizioni o, se le abbiamo, esse contano così poco ai nostri occhi che non abbiamo difficoltà a metterle da parte per rispetto delle vostre tradizioni. Intendendo così il rispetto reciproco e la "politica dell'integrazione", quegli educatori contribuiscono a preparare il terreno per futuri, probabilmente feroci, scontri di civiltà. E lasciamo da parte ciò che possiamo solo immaginare: cosa essi raccontino, sulle suddette tradizioni, nelle aule, ai piccoli italiani e stranieri. C'è poi, in secondo luogo, la questione dell'immigrazione islamica. Tipicamente (le critiche di Tito Boeri - 23 dicembre - e di altri, alle tesi di Giovanni Sartori - 20 dicembre - sulla difficoltà di integrare i musulmani, ne sono solo esempi), la posizione fino ad oggi dominante fra gli intellettuali liberal (e cioè politicamente corretti) è stata quella di negare l'esistenza del problema. Come se in tutti i Paesi europei, quale che sia la politica verso i musulmani, non si constati sempre la stessa situazione: ci sono, da un lato, i musulmani integrati, che vivono quietamente la loro fede, e non rappresentano per noi alcun pericolo (coloro che, a destra, ne negano l'esistenza facendo di tutta l'erba un fascio sono altrettanto dannosi dei suddetti liberal) ma ci sono anche, dall'altro, i tradizionalisti militanti, rumorosi e assai numerosi, più interessati ad occupare spazi territoriali per l'islam nella versione chiusa e oscurantista che a una qualsiasi forma di integrazione. E lascio qui deliberatamente da parte i jihadisti e i loro simpatizzanti. Salvo osservare che i confini che separano i tradizionalisti militanti contrari all'uso della violenza e i simpatizzanti del jihadismo sono fluidi, incerti e, probabilmente, attraversati spesso nei due sensi. Negare il problema è, francamente, da irresponsabili. Ultima, ma non per importanza, c’è la questione dell’immigrazione clandestina, che porta con sé anche i fenomeni legati allo sfruttamento da parte della criminalità organizzata (e il caso di Rosarno ne è un esempio). Non c’è nemmeno consenso nazionale sul fatto che i clandestini vadano respinti. Da un lato, ci sono settori (xenofobi in senso proprio) della società che non hanno interesse a tracciare una linea netta fra clandestini e regolari essendo essi contro tutti gli immigrati. Ma tracciare una linea netta non interessa, ovviamente, neanche ai fautori dell’accoglienza indiscriminata. Non ci sono solo troppi prelati e parroci che parlano ambiguamente di accoglienza senza mettere mai paletti (accoglienza verso chi? alcuni? tutti? Con quali criteri? Con quali risorse?). Ci sono anche operatori istituzionali che ci mettono del loro. Un certo numero di magistrati, ad esempio, ha deciso che il reato di clandestinità è in odore di incostituzionalità. Immaginiamo che la Corte costituzionale si pronunci domani con una sentenza favorevole alla tesi di quei magistrati. Bisognerebbe allora mandare a memoria la data di quella sentenza perché sarebbe una data storica, altrettanto importante di quelle dell’unificazione d’Italia e della Liberazione. Con una simile sentenza, la Corte stabilirebbe solennemente che ciò che abbiamo sempre creduto uno Stato non è tale, che la Repubblica italiana è una entità "non statale". Che cosa è infatti il reato di clandestinità? Nient’altro che la rivendicazione da parte di uno Stato del suo diritto sovrano al pieno controllo del territorio e dei suoi confini, della sua prerogativa a decidere chi può starci legalmente sopra e chi no. Se risultasse che una legge, regolarmente votata dal Parlamento, che stabilisce il reato di clandestinità, è incostituzionale, ne conseguirebbe che la Costituzione repubblicana nega allo Stato italiano il tratto fondante della statualità: la prerogativa del controllo territoriale. Né si può controbattere citando il trattato di Schengen, che consente ai cittadini d’Europa di circolare liberamente nei Paesi europei aderenti. Schengen, infatti, è frutto di un accordo volontario fra governi e, proprio per questo, non intacca il principio della sovranità territoriale. La questione dell’immigrazione ricorda quella del debito pubblico. Il debito venne accumulato durante la Prima Repubblica da una classe politica che sapeva benissimo di scaricare un peso immenso sulle spalle delle generazioni successive. In materia di immigrazione accade la stessa cosa: esiste un folto assortimento di politici superficiali, di xenofobi, di educatori scolastici, di intellettuali liberal, di preti (troppo) accoglienti, di magistrati democratici, e di altri, intento a fabbricare guai. Fatta salva la buona fede di alcuni, molti, probabilmente, pensano che se quei guai, come nel caso del debito, si manifestassero in tutta la loro gravità solo dopo un certo lasso di tempo, non avrebbe più senso prendersela con i responsabili. Angelo Panebianco 08 gennaio 2010
2010-01-07 NOI E L’ISLAM Il pluralismo valorizza la diversità No al multiculturalismo ideologico A quanto pare il tema della cittadinanza agli islamici è sentito. Il Corriere ha selezionato ieri 11 lettere, ricavate da un totale di quasi 450 accolte su 23 pagine di Internet. Ne ignoro la distribuzione. Ma un mio amico ha calcolato che più della metà di queste lettere sono a mio favore, e che le altre sono per lo più divagazioni ondeggianti tra il sì e il no. Grazie a tutti, anche perché ho così modo di estendere il discorso (seppure complicandolo un po’). Primo. Non si deve confondere tra il multiculturalismo che esiste in alcuni Paesi, che c’è di fatto, e il multiculturalismo come ideologia, come predicazione di frammentazione e di separazione di etnie in ghetti culturali. Per esempio la Svizzera è oggi, di fatto, un Paese multiculturale che funziona bene come tale, anche se il lieto fine ha richiesto addirittura una guerra intestina. Invece Belgio e Canada sono oggi due Paesi bi-culturali in difficoltà, specie il primo. Anche la felix Austria fu, sotto gli Asburgo, un grande Stato multiculturale che però si è subitamente disintegrato alla fine della prima guerra mondiale. Comunque, i casi citati sono o sono stati multiculturali di fatto. Il multiculturalismo ideologico di moda è invece una predicazione che distrugge il pluralismo e che va perciò combattuta. Secondo. Contrariamente a quanto scritto da alcuni lettori, è il pluralismo che valorizza e pregia la diversità. Ma una diversità fondata su cross-cutting cleavages, su affiliazioni e appartenenze che si incrociano, che sono intersecanti, e non, come nel caso dell’ideologia multiculturale, da affiliazioni coincidenti che si cumulano e rinforzano l’una con l’altra. Pertanto è sbagliato, sbagliatissimo, raccontare che ormai viviamo tutti in società multiculturali, e che questo è inevitabilmente il nostro destino. Invece sinora viviamo quasi tutti, nell’Occidente, in società pluralistiche in grado di assorbire e di gestire al meglio l’eterogeneità culturale. Attenzione, allora, a non attribuire al multiculturalismo pregi che sono invece del pluralismo. Terzo. Un’altra confusione da evitare è tra conflitti religiosi e conflitti etnici. Questi ultimi sono purtroppo eterni e ricorrenti. Lo sono anche, tra l’altro, all’interno del mondo musulmano. Per esempio gli iraniani sono etnicamente persiani, non arabi; e la comune fede islamica non ha impedito, di recente, una sanguinosissima guerra tra l’Iraq di Saddam Hussein e l’Iran degli ayatollah. Le religioni possono invece coesistere pacificamente ignorandosi l’una con l’altra. Si combattono quando sono "calde", invasive, fanatizzate; non altrimenti. Quarto. Qual è il vero Islam? Gli intellettuali musulmani accasati in Occidente si affannano quasi tutti a spiegare che non è quello propagandato dai fondamentalisti. Anche io ho letto, ovviamente, il Corano, che è simile all’Antico Testamento nel suggerire tutto e il suo contrario. Ma il fatto è che gli islamisti contrari al fondamentalismo hanno voce e peso soltanto con gli occidentali. Il diritto islamico viene stabilito, nei secoli, dai dottori della legge, gli ulama. Sono loro a stabilire quali sono, o non sono, gli sviluppi conformi alla dottrina coranica; e anche in Occidente il comportamento dei fedeli è dettato, ogni venerdì, nella moschea dal discorso del Khateb che accompagna la preghiera pubblica. La moschea, si ricordi, non è solo un luogo di culto, una chiesa nel nostro significato del termine, è anche la città-Stato dei credenti, la loro vera patria. Quinto. I rimedi. Tutti si chiedono quali siano, eppure sono ovvi. È stato il bombardamento del "politicamente corretto" che ce li ha fatti dimenticare o dichiarare superati. A suo tempo i tedeschi accolsero milioni di turchi come "lavoratori ospiti"; noi avevamo e abbiamo i permessi di soggiorno a lunga scadenza; gli Stati Uniti concedono agli stranieri la residenza permanente. Sono tutte formule che si possono, se e quando occorre, migliorare e "umanizzare". Ma sono certo preferibili alla creazione del cittadino "contro-cittadino" che, una volta conseguita la massa critica necessaria, crea e vota il suo partito islamico che rivendica diritti islamici se così istruito nelle moschee. Non dico che avverrà; ma se il fondamentalismo si consolida, potrebbe avvenire. È un rischio che sarebbe stupido correre. O almeno a me così sembra. Giovanni Sartori 07 gennaio 2010
Una replica ai pensabenisti sull'Islam di Giovanni Sartori Il mio editoriale del 20 dicembre "La integrazione degli islamici" resta attuale perché la legge sulla cittadinanza resta ancora da approvare (alla Camera). Nel frattempo altri ne hanno discusso su questo giornale. Tra questi il professor Tito Boeri mi ha dedicato (Corriere del 23 dicembre) un attacco sgradevole nel tono e irrilevante nella sostanza. Il che mi ha spaventato. Se Boeri, che è professore di Economia del lavoro alla Bocconi e autorevole collaboratore di Repubblica, non è in grado di capire quel che scrivo (il suo attacco ignora totalmente il mio argomento) e dimostra di non sapere nulla del tema nel quale si spericola, figurarsi gli altri, figurarsi i politici. Il Nostro esordisce così: "Dunque Sartori ha deciso che gli immigrati di fede islamica non sono integrabili nel nostro tessuto sociale, non devono poter diventare cittadini italiani". In verità il mio articolo si limitava a ricordare che gli islamici non si sono mai integrati, nel corso dei secoli (un millennio e passa) in nessuna società non-islamica. Il che era detto per sottolineare la difficoltà del problema. Se poi a Boeri interessa sapere che cosa "ho deciso", allora gli segnalo che in argomento ho scritto molti saggi, più il volume "Pluralismo, Multiculturalismo e Estranei" (Rizzoli 2002), più alcuni capitoletti del libriccino "La Democrazia in Trenta Lezioni " (Mondadori, 2008). Ma non pretendo di affaticare la mente di un "pensabenista", di un ripetitore rituale del politicamente corretto, che perciò sa già tutto, con inutili letture. Mi limiterò a chiosare due perle del suo intervento. Boeri mi chiede: "Pensa Sartori che chi nasce in Italia, studia, lavora e paga le tasse per diventare italiano debba abbandonare la fede islamica?". Ovviamente non lo penso. Invece ho sempre scritto che le società liberal- pluralistiche non richiedono nessuna assimilazione. Fermo restando che ogni estraneo (straniero) mantiene la sua religione e la sua identità culturale, la sua integrazione richiede soltanto che accetti i valori etico-politici di una Città fondata sulla tolleranza e sulla separazione tra religione e politica. Se l’immigrato rifiuta quei valori, allora non è integrato; e certo non diventa tale perché viene italianizzato, e cioè in virtù di un pezzo di carta. Al qual proposito l’esempio classico è quello delle comunità ebraiche che mantengono, nelle odierne liberaldemocrazie, la loro millenaria identità religiosa e culturale ma che, al tempo stesso, risultano perfettamente integrate nel sistema politico nel quale vivono. Ultima perla. Boeri sottintende che io la pensi come "quei sindaci leghisti" eccetera eccetera. No. A parte il colpo basso (che non lo onora), la verità è che io seguo l’interpretazione della civiltà islamica e della sua decadenza di Arnold Toynbee, il grande e insuperato autore di una monumentale storia delle civilizzazioni (vedi Democrazia 2008, pp. 78-80). Il mio pedigree di studioso è in ordine. È quello del mio assaltatore che non lo è. Il Corriere ha poi pubblicato il 29 dicembre le lettere di due lettori i quali, a differenza del professor Boeri, hanno capito benissimo la natura e l’importanza del problema che avevo posto, e che chiedevano lumi a Sergio Romano. Ai suoi "lumi" posso aggiungere il mio? Romano, che è accademicamente uno storico, fa capo alle moltissime variabili che sono in gioco, ai loro molteplici contesti, e pertanto alla straordinaria complessità del problema. D’accordo. Ma nelle scienze sociali lo studioso deve procedere diversamente, deve isolare la variabile a più alto potere esplicativo, che spiega più delle altre. Nel nostro caso la variabile islamica (il suo monoteismo teocratico) risulta essere la più potente. S’intende che questa ipotesi viene poi sottoposta a ricerche che la confermano, smentiscono e comunque misurano. Ma soprattutto si deve intendere che questa variabile "varia", appunto, in intensità, diciamo in grado di riscaldamento. Alla sua intensità massima produce l’uomo- bomba, il martire della fede che si fa esplodere, che si uccide per uccidere (e che nessuna altra cultura ha mai prodotto). Diciamo, a caso, che a questo grado di surriscaldamento, di fanatismo religioso, arrivano uno-due musulmani su un milione. Tanto può bastare per terrorizzare gli infedeli, e al tempo stesso per rinforzare e galvanizzare l’identità fideistica (grazie anche ai nuovi potentissimi strumenti di comunicazione di massa) di centinaia di milioni di musulmani che così ritrovano il proprio orgoglio di antica civiltà. Ecco perché, allora, l’integrazione dell’islamico nelle società modernizzate diventa più difficile che mai. Fermo restando, come ricordavo nel mio fondo e come ho spiegato nei miei libri, che è sempre stata difficilissima.
DOPO L'EDITORIALE DI GIOVANNI SARTORI I musulmani e i tempi dell'integrazione di Tito Boeri Caro Direttore, dunque Giovanni Sartori ha deciso che gli immigrati di fede islamica non sono integrabili nel nostro tessuto sociale, non devono poter diventare cittadini italiani (Corriere del 20 dicembre, ndr). Non si tratta di un’affermazione di poco conto. Parliamo di circa un milione e mezzo di persone che oggi vivono in Italia. Da cosa trae Sartori questa convinzione? Da un’analisi dei processi di integrazione degli immigrati di fede islamica in Paesi a più antica immigrazione? Si direbbe di no. Il 77 per cento dei maghrebini di seconda generazione immigrati in Francia ha sposato una persona di cittadinanza francese. Dichiarano di sentirsi francesi tanto quanto gli altri immigrati. In Germania un figlio di immigrato turco (al 90 per cento di religione islamica) ha la stessa probabilità di un figlio di immigrato italiano di sposarsi con una persona nata in Germania. Si identificano di più con il Paese che li ha accolti di quanto non facciano i figli dei nostri emigrati. Nel Regno Unito gli immigrati del Pakistan o del Bangladesh, le due più grandi comunità di fede islamica ivi presenti, si integrano allo stesso modo degli indiani, dei caraibici e dei cinesi. Si sentono britannici e parte del Regno Unito più degli immigrati di fede cristiana, anche se mantengono la loro religione. Si integrano economicamente e socialmente, nel lavoro, sposandosi con persone del Paese che li accoglie e parlando a casa l’inglese, indipendentemente da quanto spesso vadano in moschea, da quanto siano devoti all’Islam. Ritengono di poter essere al tempo stesso britannici e musulmani. Si sbagliano forse? Pensa Sartori, come quei sindaci leghisti che si battono contro la costruzione di moschee nelle loro città, che chi nasce in Italia, studia, lavora e paga le tasse da noi, per diventare italiano debba abbandonare la fede islamica? Non voglio certo negare che ci sia un problema di integrazione degli immigrati in generale e dei musulmani in particolare. Ma trattare di questi problemi con superficialità, alimentando pregiudizi tanto diffusi quanto lontani dalla realtà non aiuta certo a risolverli. Impedire poi ai musulmani di praticare la loro religione da noi, a differenza di quanto avviene in Paesi che da decenni ospitano grandi comunità di fede islamica, e precludere loro a priori la cittadinanza italiana, serve solo ad allungare i tempi dell’integrazione.
04 gennaio 2010(ultima modifica: 05 gennaio 2010)
LE NUOVE REGOLE PER L’IMMIGRAZIONE L'integrazione degli islamici In tempi brevi la Camera dovrà pronunciarsi sulla cittadinanza e quindi, anche, sull’"italianizzazione" di chi, bene o male, si è accasato in casa nostra. Il problema viene combattuto, di regola, a colpi di ingiurie, in chiave di "razzismo". Io dirò, più pacatamente, che chi non gradisce lo straniero che sente estraneo è uno "xenofobo", mentre chi lo gradisce è uno "xenofilo ". E che non c’è intrinsecamente niente di male in nessuna delle due reazioni. Chi più avversa l’immigrazione è da sempre la Lega; ma a suo tempo, nel 2002, anche Fini firmò, con Bossi, una legge molto restrittiva. Ora, invece, Fini si è trasformato in un acceso sostenitore dell’italianizzazione rapida. Chissà perché. Fini è un tattico e il suo dire è "asciutto": troppo asciutto per chi vorrebbe capire. Ma a parte questa giravolta, il fronte è da tempo lo stesso. Berlusconi appoggia Bossi (per esserne appoggiato in contraccambio nelle cose che lo interessano). Invece il fronte "accogliente" è costituito dalla Chiesa e dalla sinistra. La Chiesa deve essere, si sa, misericordiosa, mentre la xenofilia della sinistra è soltanto un "politicamente corretto" che finora è restato male approfondito e spiegato. Due premesse. Primo, che la questione non è tra bianchi, neri e gialli, non è sul colore della pelle, ma invece sulla "integrabilità" dell’islamico. Secondo, che a fini pratici (il da fare ora e qui) non serve leggere il Corano ma imparare dall'esperienza. La domanda è allora se la storia ci racconti di casi, dal 630 d.C. in poi, di integrazione degli islamici, o comunque di una loro riuscita incorporazione etico-politica (nei valori del sistema politico), in società non islamiche. La risposta è sconfortante: no. Il caso esemplare è l'India, dove le armate di Allah si affacciarono agli inizi del 1500, insediarono l’impero dei Moghul, e per due secoli dominarono l’intero Paese. Si avverta: gli indiani "indigeni" sono buddisti e quindi paciosi, pacifici; e la maggioranza è indù, e cioè politeista capace di accogliere nel suo pantheon di divinità persino un Maometto. Eppure quando gli inglesi abbandonarono l’India dovettero inventare il Pakistan, per evitare che cinque secoli di coesistenza in cagnesco finissero in un mare di sangue. Conosco, s’intende, anche altri casi e varianti: dalla Indonesia alla Turchia. Tutti casi che rivelano un ritorno a una maggiore islamizzazione, e non (come si sperava almeno per la Turchia) l’avvento di una popolazione musulmana che accetta lo Stato laico. Veniamo all’Europa. Inghilterra e Francia si sono impegnate a fondo nel problema, eppure si ritrovano con una terza generazione di giovani islamici più infervorati e incattiviti che mai. Il fatto sorprende perché cinesi, giapponesi, indiani, si accasano senza problemi nell’Occidente pur mantenendo le loro rispettive identità culturali e religiose. Ma — ecco la differenza — l’Islam non è una religione domestica; è invece un invasivo monoteismo teocratico che dopo un lungo ristagno si è risvegliato e si sta vieppiù infiammando. Illudersi di integrarlo "italianizzandolo " è un rischio da giganteschi sprovveduti, un rischio da non rischiare. Giovanni Sartori 20 dicembre 2009(ultima modifica: 04 gennaio 2010)
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